Omicron? Celo!

Non che io pensassi di essere immune, ma una qualche flebile fierezza di riuscire a non prenderlo iniziavo ad averla: trivaccinata, sempre molto attenta a distanze, contatti, luoghi, pur facendo una vita normale, quantomeno la normalità gnecca e un pò triste che appartiene a tutti da due anni a questa parte.
Invece… invece domenica scorsa mi scoppia un super mega raffreddore come non mi accadeva da anni, e un filo di bruciore alla gola.
” Avrai preso freddo.” Sentenzia l’amica del cuore.
” Avrai preso freddo.” Sentenzia figlio maggiore che peraltro l’ha avuto subito dopo capodanno e col quale ero stata anche in contatto senza contagiarmi.
“Avrai preso freddo” sentenziano tutti i miei “contatti stretti”. Okay, avrò preso freddo, in fondo le malattie da raffreddamento esistono ancora, però decido di farmi un tampone casalingo, di quelli che mi ha portato mia figlia a settembre, quelli che vengono forniti gratuitamente dal National Health System inglese a tutte le famiglie, una scatola da sette tamponi a settimana. Non è la prima volta che ne faccio uno, ho sempre cercato, per la sicurezza mia e di chi mi sta intorno, di togliermi ogni dubbio e godermi le occasioni conviviali, non tante ma ne ho avute tra cene a tema, compleanno, Natale. Insomma mi faccio questo serissimo (gli inglesi non scherzano su questo), tampone gola-naso e con un filo di stupore e anche di schifo vedo la striscia schizzare verso l’alto e comparire la famosa double bar C T. Positiva.
Nessun panico, sia chiaro, ma molto stupore: sono stata sempre molto attenta anche a tenere sempre le mani igienizzate, mascherina sempre, anche all’aperto. I miei “contatti stretti” stanno tutti bene, ma io l’ho preso, ‘sto maledetto virus, e da brava crucca inizio a fare ciò che si deve fare, cioè contattare il mio medico curante per l’impegnativa per il tampone.
La faccio breve: ci ho messo tre giorni ad avere l’impegnativa per il tampone rapido, che oramai fanno soltanto quelli. Ovviamente conferma che sono positiva. Sono un tipo pratico e che non si scoraggia facilmente: mi sono precipitata a fare la spesa per me e per la mia gatta, poi una confezione di ibuprofene, che a quanto pare chi fabbrica la Tachipirina è già sufficientemente ricco e non è più consigliata, mi sono chiusa in casa, divanoterapia, the, tisane, brodo, stracchino, verdure e intanto aspettavo la telefonata della uls per certificare definitivamente la mia positività, o almeno la mail nella quale mi venisse richiesto se ho sintomi e quali: niente, zero. Alla fine riesco a comunicare con la mia medichessa che mi manda a dire che il sistema è totalmente imploso e che mi farà avere lei le impegnative, mano a mano che serviranno. Dopo una settimana mi rifaccio il tampone UK: positiva. Non mi stupisco neanche di questo ma lascio a mio figlio, fuori dalla porta, il mio green pass in versione cartacea; la fa testare in due bar diversi: funziona, potrei fare quello che, ne sono convinta, fanno in tanti: ci provano, escono, vanno a farsi le loro piccole commissioni e poi tornano alla loro quarantena light. Io no, non lo faccio, perchè se sarà forse vero che prima o poi questa forma di covid ce la passeremo tutti, io resto un doberman inside, le regole le seguo.
Intanto però tra una serie su Sky e un libro ripenso a quel venerdì, quello nel quale facendo due conti mi sono infettata. Cosa caspita ho fatto di diverso quel giorno? Nulla. Ho lavorato da casa, sono stata a bere un caffè e a comprare un quotidiano nel solito enorme bar-edicola-tabaccheria; lì ho igienizzato le mani dopo aver pagato, ho consumato seduta, nella saletta eravamo pochi, forse sei, otto persone, tutti distanti. Sono passata all’ipermercato dove ho disinfettato il maniglione del carrello, mi sono ri igienizzata le mani dopo aver pagato, sono salita in auto e tornata a casa dove sono rimasta. Gesti diventati automatici dopo quasi due anni di questa immane fetecchia che ci è piovuta addosso. Non che mi aspetti che mi si accenda una lampadina sopra la testa tipo “Sì, saranno stati i due pensionati del tavolo più vicino al mio, quelli persi nel loro grattaevinci” o “Sì, sicuramente le mani della cassiera” “Sì, sicuramente il bastardo era sula confezione di Pavesini”, però la curiosità resta e tale resterà. Per fortuna non sono stata troppo male, mai una linea di febbre, solo malessere e questo maledetto raffreddorone che ancora un pò persiste, infatti sono ancora positiva. Dal mondo esterno mi raccontano della città vuota, dei cartelli chiuso per malattia sulle porte di molti negozi, della gente sempre più incazzata. Io resto qui e aspetto. Martedì il secondo tampone al drive-in.
Spero negativo perchè sinceramente ne ho le tasche piene.

Un saluto a chi passa. Lo so che ogni giorno incredibilmente qualcuno passa a leggermi, anche se i blog come questo sono passati di moda. ; )

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Unforgettable

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Io sono ancora qua. Eh…già…

Dopo due anni di assenza, di stop anche causato da cause tecniche della piattaforma, mi pare adeguato rubare il titolo del post a Vasco.
Due anni e mezza per la precisione. Come sto, innanzi tutto, perchè so che quelli che erano i miei lettori abituali e dopo l’ultimo post hanno visto calare questa cortina di silenzio se lo sono chiesto. Con qualcuno sono in contatto via whattsapp e sanno che sto bene, altri non sanno nulla quindi rassicuro: sto bene, almeno per quanto riguarda l’intruso che mi sono ritrovata ad ospitare nel mio utero. Per il momento tutto a posto, perchè quando si parla di questi intrusi, pur scoperti in tempo, la precisazione ci sta, un pò per scaramanzia ma molto perchè so che nonostante io mi tenga super controllata c’è sempre una piccola percentuale di ricomparsa, ovviamente da qualche altra parte, dato che non posseggo più un utero nè delle ovaie.

Sono stati due anni e mezzo difficili, irti di paure perchè dover frequentare l’ospedale ogni quattro mesi per i controlli è destabilizzante già di per sé, figuratevi a partire da febbraio 2020; un clima surreale, controlli, braccialetti fosforescenti, bar chiuso e attorno tutto chiuso, autocertificazione per spostarmi, insomma tutte le cose che ben conosciamo con in più il peso dell’entrare in un grande ospedale in cui ad un certo punto ben tre reparti erano convertiti in reparti Covid. La paura di respirare, la mascherina che ti protegge ma ti accorcia il fiato, l’ansia che si scioglie dopo che la ginecologa ti rassicura e ti fissa l’appuntamento a quattro mesi. Quasi tutto passato, un pò come questo schifo di virus: sai che c’è, che è qua in giro ma parrebbe andare un pò meglio. A metà ottobre l’ennesimo controllo di una routine che dovrà durare ancora per otto anni.

Tutto il resto: sono single, per scelta e in accordo affettuoso con l’uomo sorridente, positivo e affettuoso che è stato al mio fianco per due anni. So che ci è rimasto male, ma proprio per il bene che ancora gli voglio ho preferito che la nostra storia si trasformasse in una solida ed affettuosa amicizia, quando mi sono resa conto di non voler essere di peso a lui, che pure negli ultimi due anni ne ha passate di ogni. Quando mi sono sentita, lo confesso, molto meno donna di prima, anche se è un problema mio perchè esteriormente sono sempre quella, più o meno, ma qualcosa dopo questa brutta esperienza mi ha profondamente cambiata nella mia femminilità. Fondamentalmente dormo bene da sola, diciamo così, ecco.
Sono andata a rileggermi alcuni post molto in là nel tempo, quando ancora mi ostinavo a coltivare quello che comunque resta il grande amore della mia vita. Leggevo e mi chiedevo dove trovassi tutta quella forza, psichica e fisica; non era solo una questione di età più giovane, era un qualcosa che trascendeva da tutto e che, per fortuna, credo capiti solo una volta nella vita. Ammesso e non concesso che la storia fosse sfociata in una convivenza fissa, con spostamento definitivo di uno o dell’altro, ad un certo punto avrei chiuso comunque. Sono una alla quale la solitudine sentimentale non spaventa, forse perchè ho una solida rete di amicizie vere, o forse perchè semplicemente sono fatta così; come una volta mi è stato detto, “Dovessi paragonarti ad una pianta direi un bambù: rigida all’apparenza ma sotto la corteccia un cuore tenero. Resistente a tutto ma dall’aspetto fragile.” Forse chi me l’ha detto ci ha azzeccato.
Bene, il bambù vi saluta, per il momento, e vi chiede cosa avete fatto voi in questi ultimi due durissimi e complicatissimi anni.

A presto.

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Lo strano effetto che fa.

Tornare a scrivere qui quindici mesi dopo averlo fatto l’ultima volta. Tornare qui, riprendere il filo, riannodare i fili e tentare di raccontarmi, di raccontarvi. Sono accadute cose, ma non quelle che lascerebbe intendere il mio ultimo post: non è più tempo, non è più il caso e, molto semplicemente, l’uomo che ho accanto non lo merita. Sono cresciuta, finalmente e non da ora. Lo ero già quando ho scritto quel post nel gennaio dello scorso anno. Cosa ho fatto nel frattempo? Ho lavorato molto, ho cercato di mantenere un equilibrio nella mia vita conservando le priorità di sempre: i miei figli prima di tutto, anche se oramai sono totalmente indipendenti ed entrambi fuori casa, ma periodicamente tornano, o ci sentiamo spesso. Con mio figlio mi trovo quasi ogni settimana per un caffè e due chiacchiere; con mia figlia è tutto più complicato: vive e lavora in Inghilterra da più di due anni. E’ felice, realizzata, fa il lavoro per il quale ha tanto duramente studiato, ha il suo appartamentino, amicizie più UK che italiane, un ragazzo scozzese. Torna in Italia sì e no tre volte l’anno, un po’ perché ha tre settimane di ferie che cerca di spartire come può, un po’ perché vive nel nord del paese e le tariffe aeree sono sempre dei salassi, alla faccia del low cost. Però siamo sempre in stretto contatto via Skype o Whattsapp e ci scambiamo pacchettini sfiziosi, insomma, come sempre regalo a coloro che amo quello che io considero il dono più grande: la libertà. Perché se lasci libero chi ami, quella persona sarà sempre al tuo fianco, comunque.
Ci sono anche note dolenti, nuove e dolenti. Da un paio di anni litigavo col mio utero: piccoli polipi benigni che ho dovuto far rimuovere perché dovevano essere rimossi. Tutto a posto, tutto sotto controllo. A settembre al solito controllo rieccolo, un piccolo rompicoglioni. Mi fanno una biopsia: nulla di allarmante ma date le recidive mi propongono una scelta, o inserire una spirale progestinica o, se proprio voglio eliminare controlli attraverso esami fastidiosi, l’intervento risolutivo di isterectomia. Ci penso su una settimana e decido per l’intervento perché, come mi dice anche il ginecologo, non è umanamente accettabile finire in sala operatoria una volta all’anno. E così un mese e mezzo fa, piena di paura ma decisa mi faccio operare: istero-annessiotomia in laparoscopia. L’intervento va bene, in due giorni sono a casa, stanchissima ma tutto sommato sollevata, quattro piccoli punti su quattro piccole ferite, controllo dopo poco più di un mese. La convalescenza è stata, ed è ancora lenta, ma sto bene. Meno bene sto quando la primaria mi comunica che quel piccolo inspessimento dell’endometrio non era un polipo ma un carcinoma dell’endometrio, “stadio iniziale, non si preoccupi, devo mandarla per forza dall’oncologo ma la terapia è stata l’asportazione, poi la terremo controllata noi, qui in reparto.” Resto senza parole, catapultata in un mondo che finora ho osservato con terrore solo da spettatrice mentre ora ci sono dentro. La tipa è incoraggiante, il mio medico, ottimo medico, letto il referto mi tranquillizza ma intanto ci sono inciampata anch’io, e per pura fortuna ho scelto un intervento demolitivo che pareva non indispensabile. E se non l’avessi fatto? Se mi fossi fatta mettere la spirale? Sarebbe stato un macello. Mille domande fanno a cazzotti nel mio cervello, ma l’unica cosa che posso fare è seguire un percorso di controlli serratissimi (ogni 4 mesi per i primi tre anni, poi ogni sei mesi per due anni, poi se tutto andrà bene una volta all’anno fino al decimo anno,) e poi ovviamente essere ottimista, che pare la migliore medicina ma, sinceramente, in questo momento, mi riesce solo parzialmente perché la percentuale di guarigione, pur a questo stadio iniziale, è del 90%, e a me quel 10% terrorizza anche se faccio finta di nulla.

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Strategie di resistenza.

Dunque.

Allora…

Ma niente… Era logico e normale che rivedendo M. non potessi e non potesse fare finta di nulla. A dire il vero io ci ho provato, ma lui ha affrontato l’argomento appena possibile e nel modo più ovvio e banale, cioè scusandosi per l’essersi dichiarato.
Le scuse non hanno annullato l’effetto-scossa della sua dichiarazione, ma mi hanno permesso di sentirmi più tranquilla sui giorni a venire, e i mesi, perché lavoreremo gomito a gomito per una ricerca importante. L’ho osservato mentre mi parlava. Mi ha dato l’impressione di un uomo sincero, perbene, come si diceva una volta. Durante la pausa natalizia osservavo ugualmente A. Mi sono interrogata sulla nostra storia, sul nostro percorso. A. è arrivato nella mia vita come una borraccia d’acqua fresca in mezzo al deserto, come un salvagente tra i flutti. Mi sono innamorata di lui perché non potevo non innamorarmi del suo sorriso, del suo ottimismo, del suo essere protettivo, tenace, padre e madre dei suoi figli tanto quanto padre e madre dei miei sono io.
A. è una forza della natura, sempre allegro, mai stanco anche quando lo vedi che è stanco distrutto. Come si fa a non innamorarsi di un uomo così? Lo amo ancora? Sì, di un amore quieto e maturo che dura da 4 anni.
Lo tradirei tanto per provare, ritrovare il brivido della novità, di un uomo che ha parecchi anni meno di me e mi guarda con occhi, con un’espressione che avevo dimenticato o forse rimosso? No, non lo farei mai, ma se, ed è un SE grande quanto una casa, mi dovessi accorgere che la curiosità emotiva che provo verso quell’altro aumenta saranno cazzi. Sono stata una donna pluri tradita e a mia volta ho tradito e sono stanca di montagne russe, e allora perché mai dovrei avere voglia di salirci? Tacere portando avanti una storia “altra” è un’arma che mi ha ferito a morte, e che ho anche brandito e usato, e sono stanca. Vorrei essere già vecchia, nonna, appassionata di partite a burraco e gite cultural gastronomiche e invece no, sono sempre la solita inguaribile immatura.
Me lo ripeto: è ora di crescere, è ora di smettere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse (Part II)

Giusto un paio di post sotto a questo troverete un’accorato post, “Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse. Fate prima ad andare a leggere.
Perché? Perché questo post potrebbe intitolarsi molto più semplicemente “Mai dire mai”.

I fatti. Lavoro da 5 anni con un collega; ci siamo sempre stimati, supportati, quasi per nulla raccontati. Certo, so di lui alcune ma perché le ha raccontate lui, durante qualche pausa pranzo e qualche ritorno in treno. Un matrimonio naufragato causa fuga della ex moglie che lo ha piantato con una bambina di 3 anni da crescere, perché lei non se la sentiva di fare la madre. Una convivenza scoppiata un paio di anni fa, motivi sconosciuti. Da questa è nato un figlio che ora ha sette anni. Nel momento in cui lui dice alla compagna che è finita, questa si ammala piuttosto seriamente. Lui sceglie di rimanere con lei fino a che avrà bisogno di assistenza e aiuto, la donna guarisce, lui si trasferisce a vivere per conto proprio e i figli, compresa la ragazza ormai diciassettenne abbandonata dalla madre, vanno e vengono serenamente tra la casa di lui e la casa della ex. Relazioni negli ultimi due anni, non pervenute. Pettegolezzi, zero.
La mia, di storia, la sapete, quantomeno l’ultima parte: dopo quattordici anni di ottovolante con l’Innominabile bresciano, un paio d’anni di singletudine e poi l’incontro col mio compagno, il Bip, col quale sto bene, sono felice, serena, risolta. Ma circa un mese e mezzo fa inizio a cogliere segnali prima strani, poi inequivocabili, da parte del mio collega M., “il ricciolone” come l’ho battezzato da sempre quando ne parlo col Bip, perché io sono una fantasiosa e ai cognomi preferisco i soprannomi. Per altri colleghi M. è Grunge, perché proprio questo è: capelli lunghi e ricci raccolti in una coda attorcigliata, maglioni che sembrano gratugge , jeans sdruciti, tascapane di cuoio. M. inizia a guardarmi in un certo modo, mai scoperto o sfacciato ma che io sento. Trova ogni occasione per parlarmi, per raccontarmi delle sue passioni, delle sue letture, dei suoi figli. “Sento” un interesse che è cambiato, si è fatto profondo. Io con lui comunico molto bene, abbiamo molti interessi in comune ma mai avrei creduto che qualche sera fa, guardando uno straordinario tramonto veneziano dal finestrino del treno, lui mi dicesse “Senti, te lo devo dire, tu mi stai prendendo un casino.”
Salivazione azzerata, rapido time lapse all’indietro per cercare di capire se gli avessi fatto intendere che.
” Io… grazie… (GRAZIE, vi rendete conto?) … ti ringrazio ma ho un compagno, viviamo insieme…”
“Lo immaginavo. E’ quell’Andrea che ogni tanto spunta nei tuoi discorsi.”
“Sì, è lui. Ho anche una convivenza e un matrimonio alle spalle.”
“Io non riesco a fare a meno di pensarti, di guardarti. Mi piace tutto di te: come sei, come parli, come sorridi, la tua ironia, l’intelligenza. Anche altre cose che qui non posso dire.” Sorride e io sento che dentro di me qualcosa scricchiola nelle mie certezze, e sto male, e lo guardo, e penso che quando lui è nato io facevo le medie e tutte le altre cose che ho scritto nel post “Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse”. Le so bene tutte quelle cose, quelli che dovrebbero essere forti freni inibitori ma questo non mi impedisce di notare (di nuovo,) che è bello, ha un fisico asciutto e nervoso e dei bellissimi capelli anche se a me i capelloni non sono mai piaciuti, che ha bellissimi occhi. E non so che dire se non opporre un silenzio imbarazzato. Tace anche lui dopo aver farfugliato uno “Scusa ma non ce la facevo più a tenermi certe cose dentro.”
Siamo scesi dal treno e ci siamo incamminati al parcheggio senza parlare. Io pensavo alla mia incasinatissima vita sentimentale e pensavo ad Andrea, ai suoi tripli salti mortali per tornare il prima possibile dai suoi viaggi, alla cura che ha di me, al suo senso della famiglia, anche quella che siamo riusciti a creare insieme, e mi sentivo, MI SENTO, una merda. Perché non posso negare che questo uomo mi piaccia, nonostante tutto e nonostante la differenza d’età.
E poi non riesco a capire attraverso quale pertugio, quale mancanza sia riuscito a farsi silenziosamente strada dentro di me.

E mi sento una merda, e ringrazio le provvidenziali vacanze natalizie perché non lo vedrò, ma il 10 gennaio è dietro l’angolo.
Aiuto.

 

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Quando la donna diventa invisibile.

Mi ripropongo credo per la seconda volta nella mia carriera di blogger.
Non so perchè, ma questo è in assoluto l’articolo più letto di questo spazio, e il titolo è la frase più cercata nelle chiavi di ricerca. Al che, dato che il pezzo è del 2014, mi intristisce un pò pensare che noi donne ci si senta, evidentemente, ancora troppo spesso trasparenti per mille motivi.
Possibile che ancora tante di noi si sentano felici e realizzate solo attraverso lo sguardo di qualcuno? Possibilmente maschio?
Possibile che ad ancora troppe di noi non venga riconosciuta una visibilità anche attraverso canali familiari come moglie, madre, compagna?
Possibile che questa invisibilità esista e persista anche sul posto di lavoro?

Dovesei

Raccolgo le lamentele di un’amica:
“Sai che gli uomini non mi guardano più? Me ne sono accorta già dall’estate scorsa. Ti ricordi quando siamo state al mare? Neanche mezzo maschio che mi degnasse di uno sguardo. E poi alla festa per i 50 anni di Tizio, nessuno mi ha filato di pezza, neanche il più scorfano. Ma… sono così brutta? O sto diventando un cesso? Sii sincera…”
Guardo la mia amica. E’ una bella donna, alta, proporzionata fisicamente, simpatica, intelligente, veste con gusto, ma…non è più giovane, come del resto non lo sono più nemmeno io, ma non mi sono mai posta il problema di chi e se e come mi guardi.
Il fatto è che a nessuno piace ammettere di stare invecchiando, o di non essere più giovani. Il massimo al quale si arriva è l’accettare di stare invecchiando, ma agli occhi di una persona parecchio più giovane, sei…

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Se gioventù sapesse, se vecchiaia potesse. (If the young knew and the old could)

In realtà non si sa se si tratti di un proverbio inglese o francese. Qualcuno ne attribuisce la paternità a Freud ma io non ci credo, perchè non ci vuole uno psicanalista per arrivare a questa semplice ma spiazzante conclusione: basta maturare, come un buon vino o un’ottima pezza di Parmigiano Reggiano. Ma quello che spiazza è che, a scapito della cruda verità nascosta dietro a queste poche parole, si nasconda un mondo in cui invece nulla è più certo nè ben definito.
I fatti.
I vecchi non hanno più limiti, o meglio, la nostra società così fast and furious, social e in preda a cambiamenti tali che un mio paio di collant dura di più di una notizia, di un avvenimento, di una tendenza, vuol far credere ai vecchi e ai meno vecchi – diciamolo pure, ai baby boomers come me- che tutto alla nostra età e oltre sia possibile mentre, cazzo, NON E’ VERO PROPRIO PER NIENTE. Mi guardo attorno e vedo cose che non stanno nè in cielo nè in terra. Non si può restare forever young, prima o poi bisogna cedere: alla presbiopia, al colesterolo o alla pressione che fanno le bizze, alle gengive che per quanto uno curi i denti iniziano a ritirarsi, ai capelli un pò così, non più corposi e lucidi come a vent’anni, ai doloretti quando c’è umidità, alla caduta degli ormoni e per pietà alla mia generazione e a quella seguente mi fermo qui, che oramai anche quelli nati nei ’70 non sono più dei fiorelini.
C’è un momento preciso, passati i cinquant’anni o appena prima, o poco dopo, in cui il tuo corpo ti lancia dei segnali precisi: “Rallenta! Attento! Calmati, fai una bella revisione e poi ridiscutiamo il tutto.” C’è chi saggiamente ascolta ma c’è anche chi no, e qual’è la scappatoia più veloce e apparentemente semplice? Fare un qualcosa da “gggiovani” e magari coi “gggiovani”. Si va dall’acquisto di mega moto o mega auto sportive, all’intraprendere un qualche sport in modo assolutamente sconsiderato, agli aiutini estetici, all’abbigliamento casual-grunge-rock, al make up che ti fa assomigliare più al pagliaccio di It che a Cate Blanchett o Kim Cattral.
C’è poi chi si butta su un compagno/a parecchissimo più giovane, e questa davvero non la capisco. Caro lettore, cara lettrice che mi segui e hai intrapreso questa strada, ti sei mai soffermato a pensare che già dieci, quindici anni di differenza sono un gap pericoloso? Perchè è ben vero che da un punto di vista sociologico una generazione va dai 20 ai 25 anni, ma ti sei mai soffermato a pensare che quando la tua compagna ciucciava il latte dalla mamma e cacava nei pannolini tu eri in preda ai primi turbamenti sessuali, andavi a scuola col “Ciao” e ti facevi le prime canne, o le prime Marlboro? E non è affatto vero che il tempo pareggia le cose; siete adulti ma enormemente diversi. Il Tempo presenterà il conto. Sappi, medioman momentaneamente ringiovanito e insverzurito, che verrà comunque il momento del Prostamol, della schiena che non consente più certi colpi di reni, tornerà- se mai l’avessi accantonato- il momento in cui desidererai l’abbraccio confortevole del tuo divano più che una 40enne che vuole che la porti al lago in moto o a mangiare il sushi all you can eat che a te resta sullo stomaco.
Sappi, coguara 50 e rottenne ottimamente conservata che ti spupazzi e ti fai spupazzare da uno che biologicamente ti potrebbe essere figlio, che i doloretti sono sempre lì in agguato e che non puoi continuare a vita con la bustina di Oky ogni volta che prevedi una sex session col tuo boy, che per quanto tu sia palestrata e sbotulinata e abbigliata comme il faut, a letto nulla si nasconde, a meno di effetti speciali tipo fumo sul palco durante un concerto dei Pooh. Insomma si sarà capito ma io sono per le relazioni tra coetanei e due, tre anni in più o in meno sono la tolleranza massima per me. Mi è successo, oramai qualche mese fa, di suscitare l’interesse di un collega più giovane di me. Al di là del fatto che sono felicemente accoppiata e che lui non lo sapeva, quello che mi ha stupito è stato il fatto che un 43enne si fosse messo d’impegno a farmi una garbata corte. L’uomo aveva, anzi ha, perchè ancora lavoriamo insieme, il suo fascino: tipo bohemien, capelli alle spalle, sempre raccolti in una coda ripiegata, occhi scuri e profondi, fisico asciutto, look finto trasandato, buon profumo, ottima cultura, scrive, dipinge, sa ascoltare e non parla a vanvera, insomma ottimo sulla carta ma poi? Al di là che, ribadisco, sono felice del e col mio Bip, ammesso che fossi stata single non ci avrei mai fatto quattro salti in padella.
Perchè quando lui è nato io stavo finendo le scuole medie e poco dopo ho iniziato a fare sesso e lui nemmeno andava alle scuole materne.
Perchè quando lui frequentava le medie io facevo progetti matrimoniali e insegnavo a scuola a ragazzi più grandi di lui.
Perchè, al netto del Bip che non si discute, NON E’ PIU’ TEMPO PER CREDERMI GIOVANE, o per tentare di sentirmici attraverso un uomo più giovane di me.
Perchè il sesso come lo facevo a 43 non è più fattibile oggi. Sono una baby boomers ragazzi, e ho scavallato la parte giusta dei 50 ma anche ne avessi 50 tondi non cederei mai. Non capisco cosa cerchino uomini e donne in persone tanto più giovani o più vecchie di loro: illusioni? Sicurezze? Un padre o una madre o una sorella/fratello maggiore? Una sponda? Uno specchio da luna park?
Non lo so, non capisco. Ho un’amica di 60 anni, splendida donna tutta al naturale ma che si porta a letto un uomo di 36 anni, avendo lei un figlio di 35. Ma come fa? Come si fa? Ogni tanto le vengono angosce e dubbi o si scontra con l’ovvia immaturità del tipo e mi chiede se sta facendo la cosa giusta. Io non ho il coraggio di dirle che a me fa impressione pensarla con questo poco più che ragazzo, e le dico “sei sufficientemente intelligente da sapere quello che stai facendo”, ma poi penso che, davvero, non so dove la sua intelligenza emotiva ma anche pratica si sia nascosta.

Mi rifiuto di pensare che si sia rifugiata nelle sue mutande.

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